Chi è don Peppino?
Di Anna Wimmer
La pioggia viene dal nulla. L’aria è piena di umidità. Il vento soffia fortemente mentre Peppino corre gli ultimi metri verso la chiesa. San Nicola di Bari sembra illuminata sotto il cielo coperto. La sua facciata bianca riflette i pochi raggi di sole che si fanno strada attraverso la cappa di nubi. Come tutti i giorni è la prima persona in chiesa. Apre il portone. Entrando ascolta attentamente la pioggia smorzata. Piove e piove. È come se la primavera non fosse ancora stata inventata. Rimane calmo per qualche respiro e si gode il momento deserto. All’improvviso è tutto calmo. È come se la pioggia fosse stata una illusione. Il sole si apre un varco attraverso le vetrate ed illumina la navata. Una giornata particolare
Sebbene Peppino sia tutto bagnato, passa all’altare. Le scarpe che hanno ticchettato fino a poco prima, cessano poco a poco. I suoi passi risuonano nella chiesa come un corpo estraneo che disturba il silenzio sacrale. Il suo luogo di lavoro non è paragonabile alle chiese dove lavorava prima. Roma si faceva notare con le chiese vistose ed ornate. Qui a Casal di Principe, una città campana, non trova quella ricchezza ecclesiastica. San Nicola di Bari è semplice, brutta, spoglia. Tuttavia, Giuseppe si sente bene. Rimanendo nella giungla d’asfalto, la sua vita sarebbe stata prefabbricata. Gli pronosticarono una carriera rapida. Ma non era quella che voleva. Si dice che tutte le strade portano a Roma, ma don Peppino si era messo sulla via del ritorno. Tornò al suo luogo di nascita per contribuire positivamente alla società. Casal di Principe è conosciuta in tutta Italia. Conosciuta per una cosa che non vale la pena di cui essere orgogliosi. Ha il record di omicidi in tutta la Europa, una città antica di camorra, dove la mafia è l’unico organo di potere che gli abitanti riconoscono.
Pensa al giorno seguente. Non adempie al ruolo del prete di provincia classico celebrando la solita messa. Per lui la domenica gli serve a denunciare quello che sta accadendo a Casal di Principe, la roccaforte della mafia. Un parroco che si avvolge nel silenzio, gli dava rabbia. Non vuole tacere. Non vuole che gli abitanti restino nell’ombra. Rabbrividisce dal freddo. Perso nei suoi pensieri, aveva dimenticato completamente di essere ancora bagnato. Succede spesso che Peppino si smarrisca nei suoi pensieri. In questi momenti non c’è altro che la sua attenzione immersa nei propri pensieri come se tutti gli avvenimenti vicini fossero congelati, quasi inesistenti. Esce della chiesa. Il lastrico è sempre bagnato mentre il cielo non mette in mostra per niente il temporale precedente. Le nuvole sono sparite e il sole mattutino inizia lentamente a seccare i suoi vestiti bagnati.
Accende una sigaretta. Aveva un alto grado di notorietà non soltanto negli ambienti ecclesiastici ma su tutto il territorio casertano a causa della sua condotta pubblica. Girava per il paese in jeans e non in tonaca. Fumava in pubblico. Raccontava per filo e per segno i delitti mafiosi di zona. Per lui quei gesti non erano atti di rivolta. Erano simboli di cambiamento. Tanto il suo sdegno quanto i suoi atti dovevano mostrare un cambiamento radicale e in nessun caso adattamento sociale. Era un momento di forte cambiamento, il che significava a Casal di Principe, fare qualcosa contro la presenza criminale. Contro la presenza mafiosa. Un muro di silenzio avvolge il paese. Le atrocità mafiose vengono trattate con indifferenza come se fossero accettate generalmente. È la verità amara che lo colpisce ogni giorno come un pugno. Un proverbio dice che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Non solo parlava. Costruì un centro di accoglienza per i primi immigrati africani, perché doveva impedire che quelle persone diventassero soldati della camorra. Immigranti che non hanno né la possibilità né la coscienza di scegliere un’altra strada perché non c’è un’altra strada. C’era soltanto la mafia con la capacità di offrire lavoro. Il parroco creò una via di scampo per questi immigranti. Creò un’altra strada.
Butta via la sigaretta. Controlla gli avvisi fuori della chiesa vicino al portone e si arresta leggendo la lettera aperta che distribuì a Natale tre anni fa in tutte le chiese di Casal di Principe: Per l’amore del mio popolo non tacerò. Scrisse un manifesto pubblico contro il crimine organizzato. Non poteva tacere. Sapeva che non era possibile vincere la camorra con un atto pubblico come questo. L’obiettivo era invece comprendere, trasformare, testimoniare e denunciare. Sussurra la ultima frase dicendo che il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia. Gli viene la idea di iniziare la messa del prossimo giorno con questa frase. Vuole passare alla importanza e al potere delle parole. La giustizia non può essere trovata senza le parole. Gli abitanti non possono desiderare una vita giusta negando l’esistenza della mafia. La vita quotidiana è controllata dalla mafia. È un fatto di cui vuole parlare in pubblico.
La città è ancora addormentata. Ci sono pochi passanti. Sporadicamente passa un pedone lungo lo spiazzo di San Nicola di Bari. Peppino osserva un uomo che attraversa la strada. Pensa per un attimo che sia il suo amico Renato Natale ma si sbaglia. Sebbene il sole non abbia asciugato completamente i suoi vestiti, rientra in chiesa. Spesso Natale veniva a trovarlo la mattina presto. Fu eletto quattro mesi fa il nuovo sindaco comunista di Casal di Principe. La sua entrata in carica venne come un fulmine a ciel sereno. La mafia non si aspettava una forza politica dall’ala sinistra che combatteva così fortemente gli influssi della mafia in zona. Dichiarò guerra alla ulcerazione cancerosa. Per Peppino l’assistenza non poteva essere cosa migliore. Avere un sindaco che stava dalla sua stessa parte, significava un grande appoggio. Un appoggio che riuniva il potere esecutivo e ecclesiastico. Non fissarono mai i loro incontri. Natale sapeva dove riusciva a trovare il parroco e dall’altra parte Peppino poteva contare con certezza sulla visita del sindaco almeno ogni cinque giorni. Il sabato era come se avessero stabilito tacitamente un rituale comune. Preparava la moca. Quando veniva il suo amico accendeva il fornello. Che il caffè doveva essere bollente e appena fatto, era il loro accordo.
Va alla sagrestia dove aveva messo un piccolo fornello elettrico. Nota il calendario attaccato alla parete. È il 19 marzo. Il giorno di San Giuseppe, il suo onomastico. Questo giorno non gli interessava molto, ma poteva essere sicuro di una chiamata in giornata di sua madre. Per lei l’onomastico era più importante che il compleanno. La scelta del nome significò per lei pronosticare il carattere e la natura di suo figlio. Secondo il Nuovo Testamento San Giuseppe era lo sposo di Maria e il padre putativo di Gesù. La sua qualità morale si distingueva per la brama di giustizia. Però Peppino non pensava che fosse un uomo giusto solo a causa del nome contrario all’opinione di sua madre. Non sapeva da dove veniva il suo senso della giustizia. Il pensiero che le sue azioni venissero dirette da dio, si era già perso da anni. Conosceva pochi parrochi che erano contro la mafia. Pochi che prendevano nettamente posizione contro le attività dei clan casalesi. Se la lotta contro la mafia fosse incaricata da Dio, i suoi colleghi non agirebbero in nome di Dio. Non poteva credere che operassero empiamente. Non facevano il loro dovere.
Non si è ancora vestito con gli abiti talari. Macina il caffè e prepara la moca. Prima che vengano i fedeli, vuole leggere il giornale e controllare se ci siano notizie che riguardino affari mafiosi attuali. Sarebbero materiale per la sua messa. Inizia a leggere la prima notizia quando si accorge del portone che cigola. Da giorni voleva oliare le cerniere. Se ne accorgeva sempre nel momento quando lui o qualcun’altro apriva il portone della chiesa. Il rumore era tremendo. Era come se ritornasse col pensiero ai tempi nella scuola conventuale, dove le porte non venivano mai lubrificate. Normalmente Renato non veniva a quell’ora. In effetti appariva sempre presto, ma alle sette non era mai venuto. Accende il fornello e ci mette la moca. Percepisce passi che echeggiano nella navata. Interrompono il silenzio così repentinamente che sembra essere cacciato per sempre, come se la tranquillità non mai tornasse più. I passi sono lenti e non sembrano essere finalizzati ad uno scopo. Si accinge ad uscire dalla sagrestia, però i passi si allungano e si avvicinano al luogo dove sta Giuseppe. Ancora prima che veda l’autore del brusio di passi, la sagrestia si oscura. Come un segno precursore di un temporale, il buio si avvicina. Un’ombra umana si mette sopra il vano schermando per un attimo tutta la luce che risplende dalla navata.
Entra un uomo basso. Porta i jeans e una giacca di pelle. Peppino non lo conosce. Per lui era importante avere un rapporto stretto con i visitatori della sua chiesa. Di solito conosceva tutte le persone che visitavano le messe. Spulcia la sua memoria ma non riesce a trovare nessun filo che lo porta al signore appena apparso. E’ sicuro di non avere mai visto la persona che ha di fronte. Ma perché uno straniero veniva a quest’ora a San Nicola di Bari? Non era nemmeno l’ora della confessione. Tutta la città sembra essere in letargo. Invece la persona è inquieta, quasi eccitata. Don Peppino nota inoltre che il sudore gli imperla la fronte. Pensa che ci sia qualcosa di grave che lo occupa. L’uomo lascia scorrere febbrilmente l’occhio nella sagrestia mentre trattiene il respiro. Resta in piedi due metri di fronte di lui. Il silenzio torna. Torna così velocemente, così come era sparito. Potrebbe essere la calma prima della tempesta, pensa Peppino.
Si guardano negli occhi. Nessuno parla. Soltanto la moca inizia ribollire come se volesse farsi notare con discrezione. Il parroco vuole fare un passo avanti quando l’uomo apre la bocca. Tenta di dire qualcosa ma gli manca il respiro. Prende fiato e gli chiede con voce spezzata: “Chi è don Peppino?” L’uomo non lo riconosce perché non porta i vestiti talari. Ma chi potrebbe trovarsi nella chiesa la mattina presto se non il parroco della chiesa? La sua risposta viene senza indugio: “Sono io.” Due parole che diventeranno le sue ultime parole. Gli occhi dell’uomo si allargano. Peppino vede il vicolo cieco in cui si trova. Mentre l’uomo tira fuori l’arma che aveva nascosto nella sua giacca, Peppino leva le braccia in alto. Il suo riflesso lo sorprende. Non vuole darsi per vinto. Ma sembra che la fine sia arrivata e che non sia più lui che controlla i suoi gesti. E’ diventato una marionetta dipendente dal suo corpo, dipendente dalla volontà umana di sopravvivere. Il suo cervello vuole essere forte mentre il suo corpo cerca l’ultimo espediente della situazione disperata. Mira al volto mentre l’uomo si avvicina. La sua testa è vuota. Nota un rumore che gli ricorda un vulcano attivo prima della eruzione: Il caffè è pronto.
Muore all’istante. La prima palla lo colpisce al volto. La seconda e la terza vanno a segno nella testa. Mentre la quarta colpisce la mano e l’ultima il collo. Un fiume di sangue si forma in breve tempo. Come un’isola il suo corpo inerte si accumula nel mare rosso. Il caffè che nel frattempo aveva iniziato a sgorgare, piove sul pavimento intriso di sangue. Il mafioso scomparve spettralmente in pochi secondi. Solamente le impronte sanguinose dei suoi piedi indicano l’assassinio. Per minuti non succede niente. Come succo versato il sangue copre il pavimento. Gli occhi aperti fissano l’infisso verso la navata. Il morto giace sul fianco. Il suo braccio destro è disteso anormalmente. Il silenzio fa la parte principale in chiesa. Un silenzio di tomba che viene interrotto dalla moca che sta gorgogliando senza interruzione. Il sole rinforzato riempie di luce la chiesa. Le finestre multicolori creano un gioco di luce che viene aumentato dalle gocce di pioggia. La luce si rifrange contro le gocce mettendo in moto i vari colori. Rimangono sulle finestre come testimoni segreti o presagi furtivi pronosticando la tragedia sanguinosa: La morte di don Peppino, del parroco di San Nicola di Bari. Pagava con la sua vita la lotta contro la mafia casalese. Il suo obiettivo non è mai stato vincere la camorra. Piuttosto voleva impedirle di giocare a nascondino nella vita quotidiana di Casal di Principe. Per lui era importante sottolineare che la mafia esiste e nient’altro. Soleva dire che vincitori e vinti erano sulla stessa barca. La sua barca affondò.
“Sento il bisogno di esprimere ancora una volta il vivo dolore in me suscitato dalla notizia dell’uccisione di don Giuseppe Diana, parroco della diocesi di Aversa, colpito da spietati assassini mentre si preparava a celebrare la santa messa. Nel deplorare questo nuovo efferato crimine, vi invito a unirvi a me nella preghiera di suffragio per l’anima del generoso sacerdote, impegnato nel servizio pastorale alla sua gente. Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra, produca frutti di piena conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace.”
Spegne la radio. Il messaggio di cordoglio di Papa Giovanni Paolo II rinforza il suo dolore. Non ci sono parole che possano cambiare la crudeltà del giorno anteriore. Si sente intorpidito. Renato Natale pensa ininterrottamente al corpo immobile che trovò sul pavimento della sagrestia. Il suo amico era stato ucciso in chiesa, un luogo che dovrebbe essere pacifico. Un luogo dove si trova aiuto ed assistenza. Al contrario don Peppino trovò la morte. Fu il prezzo pagato alla pace tra i clan. Provocava il potere della camorra casalese mentre le famiglie Schiavone e De Falco erano in guerra tra loro e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Tra i due gruppi in lotta si doveva trovare un accordo, e questo fu siglato sulla carne di don Peppino. Eliminarlo significava risolvere un problema per tutte le famiglie e al contempo distogliere l’attenzione delle indagini dai loro affari. Di questo, Natale era convinto.
Guarda fuori dalla finestra del municipio. È un giorno bellissimo. Il sole primaverile riscalda l’asfalto sul quale marcia un fiume di casalesi. Tutta la città è in lutto per la morte di don Peppino. Dalle finestre e dai balconi pendono le lenzuola bianche. Il bianco glassa le facciate di Casal di Principe. Riflette la luce abbagliante e corrobora l’atmosfera tesa. E’ come se la marcia funebre fosse guidata non dal lutto ma soltanto dalla rabbia della gente. Gli hanno preso il loro padre spirituale. Peppino non taceva. Invece raccontava. Non poteva fare altro che ribellarsi, rompendo il silenzio.
Catturato
Di Patricia Hintermayr
È un caldo straordinario per essere un giorno di fine aprile. Le campane della chiesa di Corleone annunciano che sono le dodici in punto, mezzogiorno. I cittadini della città siciliana stanno per pranzare per poi riposarsi un po’ dal caldo. Le strade con l’asfalto rotto e con buche enormi sono quasi vuote. Un prete anziano si avvicina alla chiesa maggiore di Corleone per pregare un Angelus e per sfuggire all’afa. Il suo viso con la sua pelle abbronzata dal sole siciliano e con le sue rughe profonde assomiglia alla terra secca che i contadini cercano di coltivare fuori dalla città. Di fronte alla chiesa due donne anziane sono appena scese dall’autobus. Ognuna ha tre, quattro borse di plastica bianca in mano. L’una, vestita tutto in nero perché le è morto il marito tanto tempo fa, saluta la sua compagna e attraversa la strada per poi sparire dietro il portone verde di una casa vecchia e diroccata. L’altra fa alcuni passi in avanti, poi mette le borse sulla strada perché le fanno male la schiena e le ginocchia. Guarda il cielo mettendosi una mano sulla fronte per proteggere i suoi occhi dal sole, riprende in mano le sue borse, fa un sospiro profondissimo come dovesse portare un peso enorme sulle sue spalle e continua il suo cammino.
Anche nella campagna vicino a Corleone si sentono le campane della chiesa. Lì, fuori dalle porte della città, lontani dalla vita moderna, sembra che il tempo si sia fermato già tantissimi anni fa. Questo aprile straordinariamente caldo ha, insieme ad un inverno molto arido, disseccato la terra che i contadini coltivano già da tre, quattro o cinque generazioni. Le case dei contadini sono disperse nel territorio collinoso, isolate dal mondo circostante. Alcune delle casucce sono state costruite più di cent’anni fa. Sono case povere con buchi nei muri, con tetti rotti e con finestre piccolissime. Accanto alle case, olivi offrono un po’ di ombra alle vacche. In lontananza si sentono i rumori della superstrada che collega Corleone con il resto dell’isola. Una donna magra con occhi e capelli nerissimi esce da una delle casucce e comincia a stendere la biancheria su una corda nel giardino. Un gatto grigio e magro come la sua padrona, le si avvicina alle gambe per ricevere la sua razione di carezze.
Giuseppe Gualtieri, capo della squadra mobile di Palermo, non vede né la donna, né il gatto, perché una delle altre case disperse sta al suo interesse particolare. Gualtieri e una decina di altri poliziotti si sono appostati attorno ad una casa diroccata con una stalla e un caseificio accanto. Gualtieri suda sotto la sua uniforma pesante. Il sole sta allo zenit e anche se il capo della squadra mobile e gli altri poliziotti si sono appostati nell’ombra, il caldo è insopportabile. Sono già due settimane che osservano questa casa. Due settimane snervanti. Oggi Gualtieri e i suoi uomini vogliono portare a termine quello che la polizia italiana cerca di fare già da più di quarant’anni. Non possono permettersi il minimo errore.
Dentro il casolare Bernardo ascolta il suono delle campane. Chiude gli occhi e pensa alla sua cresima nella chiesa maggiore di Corleone. Era un giorno caldo e splendido come oggi. La chiesa era piena di fedeli, tutti familiari dei giovani che stavano per ricevere lo Spirito Santo. I suoi genitori erano seduti in prima fila per guardare il loro figlio. Riapre gli occhi. “Basta con la nostalgia”, pensa e accende la radio sulla tavola. Bernardo si alza dalla sedia e va verso l’armadio fatto da legno scuro. Apre l’armadio e controlla i medicamenti che custodisce dentro una vecchia scatola da scarpe. Presto avrà bisogno di rifornimento. Già da alcuni anni ha problemi con la prostata. Un’operazione gli ha salvato la vita, ma da allora deve prendere dei farmaci. Con il passare degli anni la salute è diventato il suo punto debole. Da giovane era così forte, così invulnerabile. E adesso all’età di 73 anni dipende da queste piccole pastiglie.
Non solo il suo stato di salute è cambiato negli ultimi anni, ma anche il suo aspetto fisico è stato segnato dal passare del tempo. Pian piano la maggior parte dei suoi capelli è diventata grigia e rughe sul suo viso e soprattutto sulla sua gola sono diventate visibili. E come tanti altri anziani anche Bernardo ha bisogno di occhiali per leggere. Ma anche se la sua facoltà visiva è peggiorata, i suoi occhi sono come sempre: neri, attenti, lucidi. Non c’era e non c’è niente che può sfuggire al suo sguardo sveglio. Sveglia come i suoi occhi è anche la sua mente. Già da giovane Bernardo era molto pragmatico e deciso, non c’era niente e nessuno che lo poteva fermare. Non ha mai perso troppi pensieri nella nostalgia, alla malinconia o ai sentimenti da lui considerati superflui. È proprio per questo che i ricordi nostalgici che gli vengono ogni tanto, lo fanno arrabbiare. Per lui sono inutili e un segno di debolezza.
All’improvviso la porta del casolare si apre e cinque poliziotti in uniforme, con giubbotti antiproiettile addosso e le teste coperte da celate prendono d’assalto la stanza dove Bernardo ha controllato i suoi medicamenti. Tutti hanno una pistola in mano e si dirigono verso l’uomo anziano che sta ancora davanti all’armadio fatto di legno scuro. Bernardo guarda i poliziotti, tutti pronti a sparargli al primo movimento sbagliato. L’ambiente dentro il casolare è teso. Bernardo è sveglio e attento come un leone che osserva la situazione per poi attaccare la sua preda. Passata è la melancolia con la quale ha pensato alla sua cresima, passati i pensieri al rifornimento dei suoi medicamenti e passata la rabbia sulla sua salute. Adesso si concentra solo sulla stanza piccola dove i cinque poliziotti lo guardano con così tanta fermezza. Velocemente Bernardo esamina le opzioni che ha. Fra poco dovrà arrivare un suo amico a portargli vestiti lavati e il suo pranzo. Potrebbe aspettare l’arrivo dell’amico? Molto probabilmente no. Negli ultimi giorni il suo amico è sempre arrivato verso l’una. Inoltre, anche se il suo amico arrivasse in tempo non sarebbe preparato a fronteggiare almeno cinque poliziotti. Potrebbe fuggire? No. Le finestre sono troppe piccole e sicuramente ci sono ancora più poliziotti fuori la casa per proteggere i colleghi e per evitare la sua fuga. Potrebbe sparargli? Pensa alla sua pistola che custodisce nel cassetto sotto il tavolo. No, è troppo lontano, non può avvicinarsi alla tavola senza essere colpito da un poliziotto. Pian piano Bernardo realizza che non può scappare. Non c’è una soluzione che lo porta fuori dal casolare. Questa volta non è il leone che osserva e poi attacca la sua preda, questa volta è lui la preda.
Potrebbe anche lasciare che i poliziotti gli sparino. A 73 anni ha già la maggior parte della sua vita dietro di sé. Inoltre, la prospettiva di finire in una prigione e alla fine dopo anni di monotonia morire su una branda in una cella povera lo fa impazzire. La sua famiglia potrebbe sopravvivere anche senza lui. I suoi figli sono già adulti e potrebbero aiutare sua moglie a superare il dolore sulla morte del marito. Per quanto riguarda gli affari che devono essere gestiti, Bernardo ha già stabilito un successore. Ma anche se la prospettiva di morie in prigione non gli piace, l’idea di essere ucciso da un poliziotto è ancora peggio. Un grande uomo d’onore come lui ammazzato da un poliziotto dilettantesco, un pensiero insopportabile.
Dentro di sé Bernardo sapeva già da tanto tempo che un giorno sarebbe venuto il momento di arrendersi alla polizia, e questo giorno è arrivato. Per il momento ha perso una partita nel gioco che gioca già da più di quarant’anni.
Giuseppe Gualtieri guarda Bernardo attentamente, guarda i suoi capelli grigi, la gola rugosa, gli occhiali da leggere, i suoi vestiti semplici. Gli guarda direttamente negli occhi neri, attenti e lucidi. Negli occhi di Bernardo Gualtieri vede ferocia, ostilità e qualcosa che il poliziotto definirebbe come arroganza. “Questo è l’uomo più cercato d’Italia, un uomo anziano con rughe e con occhiali da leggere”, pensa Gualtieri. Ma non deve sottovalutarlo. Bernardo è un uomo pericoloso, furbo e brutale. Gualtieri suda sotto il suo giubbotto antiproiettile e sotto la celata. Ma non solamente a causa del caldo tremendo, anche perché è nervoso. Da una parte Gualtieri sa che ha vinto: la casa è circondata da poliziotti e qui dentro la casa ci sono cinque uomini armati pronti a fronteggiare un uomo anziano e –a quanto pare – disarmato. Ma dall’altra parte ci potrebbe essere un agguato. Forse ci sono uomini armati, amici di Bernardo, che si nascondono e aspettano il momento giusto per attaccare i poliziotti. Senza dubbi Gualtieri è un poliziotto di lungo corso, non è la sua prima azione sotto condizioni estreme. Ed è esattamente per questo che Gualtieri sa che si tratta di una situazione pericolosa, nonostante la superiorità numerica dei suoi uomini.
Ma poi, all’improvviso, Bernardo alza le mani, proprio come volesse arrendersi, e comincia a sorridere. È un sorriso orgoglioso, freddo, arrogante. Gualtieri pensa alla eventualità che questo sia una finta del uomo anziano, ma poi decide che deve terminare questo gioco che Bernardo e la polizia giocano già da troppi anni. “Lei è Bernardo Provenzano?” chiede al uomo anziano che lo guarda attentamente. Bernardo fa un cenno di sì col capo. Gualtieri guarda i suoi uomini e due di loro intascano le loro pistole e fanno alcuni passi rapidi avanti per mettere le manette a Bernardo. I due poliziotti si preparano a condurre via l’uomo anziano, ma Bernardo guarda Gualtieri direttamente negli occhi con uno sguardo ostile, pieno di odio. “Non sapete cosa fate”, dice al capo della squadra mobile, poi va via con i due poliziotti.
Non a caso Bernardo Provenzano era uno degli uomini più cercati d’Italia. Era membro di Cosa Nostra a partire degli anni cinquanta, capo dei capi a partire della metà degli anni novanta e responsabile per più di cinquanta omicidi. Il suo arresto l’11 aprile 2006 ha posto fine a una latitanza che durava da più di quarant’anni.
Bernardo Provenzano è nato il 31 gennaio 1933 a Corleone da una famiglia di contadini. Ha abbandonato presto la scuola per aiutare il padre nei campi. Ha iniziato la sua carriera criminale già da giovane con delitti come furto di generi alimentari e macellazione clandestina di bestiame rubato. A determinare il percorso di Provenzano all’interno di Cosa Nostra è stato Luciano Liggio. Provenzano si è legato presto al boss dei Corleonesi, e da lui è stato affilato alla cosca mafiosa locale. Fino all’arresto di Liggio nel 1974 Provenzano lo sosteneva.
Sia dentro Cosa Nostra che al di fuori dell’organizzazione criminale Provenzano era noto per la sua brutalità. Così è stato soprannominato “il trattore” per la violenza con la quale ha ucciso le sue vittime. Esempio famoso della brutalità di Provenzano è la strage di viale Lazio del 10 dicembre 1969. La strage compiuta da Provenzano e quattro altri mafiosi e diretto da Salvatore, detto Totò, Riina aveva come obiettivo l’omicidio di Michele Cavataio, capo della famiglia dell’Acquasanta. La famiglia dei Corleonesi riteneva che Cavataio fosse uno dei responsabili della prima guerra di mafia, scoppiata nel 1962. Perciò Liggio, Provenzano e Riina hanno voluto punirlo. Alla fine della strage sono state uccise cinque persone, tra di loro anche Cavataio. Ma il boss dell’Acquasanta non è morto subito. È stato colpito da una pistola ed è rimasto a terra ferito. Provenzano lo ha stordito con il calcio della sua beretta MAB 38 prima di finirlo con diversi colpi di pistola. Su questo avvenimento il collaboratore di giustizia Antonio Calderone ha affermato che Provenzano veniva chiamato “u’ tratturi” con riferimento alle sue capacità omicide, nel senso che egli tratturava tutto e da dove passava Provenzano non cresceva più l’erba.
Nonostante la sua latitanza che ha avuto inizio nel 1963 Provenzano era per decenni uno dei membri più influenti della famiglia dei Corleonesi. Dopo l’arresto di Liggio nel 1974 Provenzano e Riina sono diventati i reggenti dei Corleonesi e hanno fatto scoppiare la seconda guerra di mafia con cui hanno eleminato i boss rivali. Dopo gli arresti di Riina nel 1993 e di Leoluca Bagarella nel 1995 Provenzano è diventato il capo dei capi di Cosa Nostra. Era al culmine del suo potere. In seguito alla investitura a capo dei capi Provenzano ha avviato la cosiddetta strategia della sommersione. L’obiettivo della strategia era di rendere Cosa Nostra invisibile dopo gli attentati dinamitardi contro lo Stato italiano. Tra le più famose vittime degli attentati del 1992/93 erano i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per non richiamare troppo l’attenzione delle autorità e del pubblico su Cosa Nostra, quest’ultima ha limitato gli omicidi e le azioni eclatanti. Così la mafia siciliana poteva concentrarsi piuttosto allo sviluppo degli affari leciti e illeciti.
Già durante la sua latitanza Provenzano è stato condannato all’ergastolo varie volte. Così è stato recluso sia a Terni che a Novara e Parma in modo completamente isolato dagli altri detenuti. A partire del 2011 lo stato di salute di Provenzano si è aggravato. Questo ha suscitato una controversia giudiziaria tra gli avvocati dell’ex boss che chiedevano la revoca del regime 41bis e la procura di Palermo che insisteva sul trattamento di Provenzano a secondo delle direttive del regolamento carcerario. La cassazione ha ritenuto che un trasferimento di Provenzano dalla sua camera di massima sicurezza nell’ospedale di San Paolo di Milano a un ospedale comune avrebbe messo l’ex boss a rischio sopravvivenza visto che nella camera di massima sicurezza godeva di un’assistenza sanitaria efficace. Così Provenzano è morto il 13 luglio 2016 all’ospedale di San Paolo. Alcuni giorni dopo la sua urna è stata tumulata nella tomba di famiglia a Corleone.
Il nome di Giuseppe Gualtieri invece sarà per sempre legato all’arresto di Provenzano. In seguito all’arresto guidato da lui è stato promosso per merito straordinario Dirigente Superiore di polizia.
Con l’arresto di Provenzano l’era dei grandi boss mafiosi degli anni ottanta e novanta è terminata. Mentre altri capi come Totò Riina o Leoluca Bagarella sono già stati arrestati negli anni novanta, Provenzano è riuscito a nascondersi ancora dieci anni in più dalle autorità italiane. Ma come lo ha fatto? Com’è possibile in un paese industrializzato che un uomo possa rimanere latitante per più di quarant’anni e nel frattempo gestire un’organizzazione criminale come Cosa Nostra? Queste sono due domande che ci lascia il caso Provenzano. Domande per cui lo Stato Italiano deve trovare risposte. Sicuramente il principio dell’omertà e l’infiltrazione mafiosa della politica e della polizia sono due aspetti importanti che hanno permesso a Provenzano di vivere in latitanza e contemporaneamente rimanere ai vertici di Cosa Nostra. Questa vicenda dimostra che le leggi stabiliti per lottare la mafia come il 416terz che punisce politici che collaborano con la mafia, o la protezione di pentiti non bastano ancora per rompere i vincoli mafiosi. Senza dubbio nella lunga latitanza di Provenzano, ci sono sempre state delle persone che sapevano dove Provenzano si nascondeva e che lo hanno aiutato. Particolarmente per questo ci servono misure che spingano ancora più mafiosi a collaborare con la giustizia. Il caso Provenzano deve essere una lezione per le autorità italiane perché è un avvenimento che dovrebbe essere impensabile in un paese industrializzato come l’Italia.